Dall’Hortus conclusus medievale all’agricoltura industriale, fino al distacco totale dell’uomo dalla terra che ha sotto i piedi.
di Dario Boldrini
La coltura delle piante, nella sua storia, può essere sintetizzata in tre grandi tipologie che poi sono confluite in una tale diffusione e confusione da perdere l’identità e l’autenticità che le legava al territorio.
La prima è quella dell’Hortus conclusus, in epoca medioevale, quell’orto cinto da mura e ricco di erbe officinali, commestibili, magiche. Tanta era la conoscenza botanica diretta nei preparati erboristici e tanti ancora i passi da fare in ambito medico che l’orto, oltre a rappresentare il luogo della coltivazione per la sopravvivenza, era la nicchia in cui si coltivavano erbe preziose perché alla base delle cure per la salute e il benessere. Declinati poi in varie forme come gli orti monastici connessi a comunità religiose o gli orti botanici legati a Istituti storici di ricerca o collezionismo botanico.
In Toscana ricordiamo l’antico Chiostro delle Medicherie che fin dal 1288, anno un cui nacque l’antico ospedale di Santa Maria Nuova, ospitava piante che i monaci coltivavano ed elaboravano per i rimedi curativi ai pazienti. Non possiamo non citare, nel resto d’Italia, il Giardino della Minerva di Salerno, dove nasce la più antica università di Medicina del mondo, legata all’utilizzo dei medicinali estratti dalle piante oppure il celebre Orto botanico di Padova.
L’agricoltura, in quei secoli, era limitata ai piccoli orti domestici, alle corti cittadine o agli orti di monasteri, certose, comunità religiose.
La crescente diffusione delle piante ad opera di collezionisti, incentivata dall’incremento dei mercati e dal miglioramento dei trasporti, ha poi portato alla coltivazione delle piante sia a scopo ornamentale, sia su ampia scala. Da una parte le nobili famiglie ostentavano la propria ricchezza con varietà di agrumi o fiori provenienti dall’altra parte del mondo, dall’altra si coltivavano sempre più terre fuori dalle città, meccanizzando le lavorazioni e togliendo al bosco e all’incolto vaste aree per nuovi impianti produttivi. E’ successo con l’avvento dalla vite e dell’olivo, ma anche con i seminativi, i frutteti, i castagni e così via.
Il secolo scorso poi ha visto l’espansione rapida della seconda tipologia di agricoltura, quella legata all’industria di lavorazione dei raccolti, ma anche quella di produzione ad ettaro. Portando la coltura delle piante a essere soltanto un numero da raggiungere, un fine per il quale ogni mezzo era permesso: concimi chimici, diserbanti , lavorazioni profonde di sfruttamento intensivo. In mezzo secolo, così, abbiamo portato l’agricoltura a essere parte attiva nell’inquinamento dell’ambiente naturale invece che a sostegno o protezione. In questo modo ogni anno perdiamo 24 miliardi di tonnellate di terra fertile e le responsabilità, benché vadano distribuite, sono da imputare in massima parte proprio all’agricoltura industriale.
In 20 anni la produzione agricola è triplicata e la quantità di terra irrigata è raddoppiata. Ma tutto ciò va a discapito della fertilità del suolo, tanto che oggi è urgente applicare metodi di agricoltura naturale e rigenerativa per poter riequilibrare quei valori di fertilità.
Ed è qui che si inserisce la terza e ultima tipologia di coltura delle piante, quella delle mode florovivaistiche, del commercio di piante tutte uguali, delle leggi sui semi, l’abuso di plastica e di tecnologia fino al distacco più totale dell’essere umano dalla terra che ha sotto i piedi. Una ferita che ancora oggi ci fa sentire clandestini in un pianeta depauperato e inquinato oltre ogni immaginazione. Sì, perché se ognuno di noi sentisse invece la consapevolezza che la terra è casa, che la natura accoglie e ne siamo parte integrante, non sarebbero necessarie campagne di divieti, bonifiche, ecc…
Nella moltitudine di offerte che il nostro intelletto propone nella coltura delle piante, oggi possiamo scegliere l’agricoltura sinergica piuttosto che quella integrata, la permacultura invece dell’agricoltura rigenerativa, la biodinamica o l’idroponica, la bioattiva. Quel che serve però è l’azione: farsi un orto. Basta. Perché, se ti fai un orto, ringrazi i tuoi genitori d’esser nato.
Dario Boldrini è nato e vive a Montespertoli (Fi). Dopo 12 anni di lavoro in uno studio di Architettura del Paesaggio di Firenze (ha progettato alcuni dei primi orti urbani) ha scelto di vivere nel podere di famiglia San Ripoli dove, insieme alla compagna Elisa, ha fondato l’associazione Seminaria. Un progetto che spazia dalla creazione di orti e giardini ai laboratori di orticoltura per bambini e adulti, dalle spirali di erbe aromatiche ai seminari di orti creativi.
Appassionato divulgatore, ha realizzato centinaia di servizi per il programma GEO di RAI 3 in giro per l’Italia. Il suo progetto della Terza Piazza a Firenze (Coop di piazza Leopodo) è diventato un modello di aggregazione sociale.
“Giardiniere planetario” è una qualifica ereditata da Gilles Clèment, agronomo e paesaggista francese.
www.darioboldrini.net
Aggiungi un commento