Dal dopoguerra in poi l’agricoltura industriale ha trasformato i contadini in imprenditori che per fare profitto sono diventati dipendenti dalle multinazionali.
di Marcello Bartoli
9 febbraio 2024
Seppur caotica e alimentata da istanze contraddittorie la protesta dei trattori stava rianimando delle flebili speranze di riesumazione di un settore, quello agricolo, troppo spesso sottovalutato nella sua cruciale importanza per l’ambiente e la vita di tutti noi. Impossibile, certo, non vedere le difficoltà degli agricoltori nel continuare a vendere il cibo a prezzi stracciati e così facendo essere relegati nel gradino più basso della scala sociale. L’inflazione crescente degli ultimi anni è stata la spallata finale, ma ci domandiamo anche se la questione dell’agricoltura possa essere affrontata esclusivamente da un punto di vista economico oppure sia giusto considerare anche l’impatto dell’agricoltura industriale sulla salute pubblica, sull’ambiente e sulle relazioni sociali.
Se la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato il ritiro del progetto di legge, già bocciato dal Parlamento europeo, che puntava a ridurre l’uso dei pesticidi entro il 2030 come una vittoria degli agricoltori, non di meno ha fatto il nostro Governo che ha esultato per questa “concessione” agli agricoltori in rivolta, seguito in coro da alcune associazioni di categoria. “Finalmente” dunque gli agricoltori saranno liberati da norme troppo restrittive e potranno irrorare campi e coltivazioni di fitofarmaci? Possibile che non si riescano a conciliare gli interessi privati e la redditività dell’agricoltura con la salvaguardia della salute dei consumatori?
Facciamo un passo indietro. La fame e la disperazione post seconda guerra mondiale avevano forse bisogno di un modello agricolo che affrontasse questi problemi alla radice e che badasse alla quantità più che alla qualità dei prodotti agricoli. Ma come ha spiegato bene l’ecologista Giannozzo Pucci “lo slancio post bellico di un certo modello agricolo di modernizzazione partì dai petrolieri americani, che sottoposero l’agricoltura all’industria, quindi al petrolio in tutte le sue forme, dai carburanti ai pesticidi, e l’impresa con caratteristiche industriali ha portato nel tempo sul mercato quelli che gli inglesi chiamano ‘cash crops’, prodotti per fare denaro“. L’agricoltore è andato a dipendere progressivamente da fattori della produzione al di fuori dell’agricoltura, una strada verso la vendita dei prodotti nei supermercati e nelle grande distribuzione.
L’agricoltura industriale ha portato progressivamente gli agricoltori a dipendere da fattori di produzione acquistabili sul mercato e a essere in passivo, a meno che non ci siano i finanziamenti europei, ovvero una politica fatta di sussidi. Per decenni la Pac (Politica Agricola Comune) ha distribuito risorse, privilegiando le grandi imprese agricole, con un modello produttivo sempre più dipendente da pacchetti tecnologici elaborati dai giganti dell’agrobusiness. Più sei grande e più sarai aiutato a diventare grande perché ti serviranno e sarai dipendente dall’acquisto di suoli, strutture, sementi, agrofarmaci, grandi macchinari agricoli, gasolio agricolo che ti serviranno a produrre sempre di più e sempre più velocemente, sovrapproducendo e sprecando tantissimo in filiere sempre più lunghe ed elaborate. Il mito della crescita infinita si è insinuato anche nelle campagne.
In questo contesto la gran parte dei guadagni va agli intermediari, alla grande distribuzione e a coprire i costi dello spreco. Anni di libero scambio con un modello industrialista e tecnocratico di agricoltura hanno portato a costi crescenti, concorrenza eccessiva da altri Paesi più sfruttati, burocrazia asfissiante e alle norme dell’Ue per il Green New Deal. Il lavoro di lobbying delle grandi industrie agricole è riuscito a rendere l’agricoltura e l’allevamento quel che sono. La quantità prevale sulla qualità, la salubrità dei prodotti passa in secondo piano se l’agricoltore è convinto di essere nell’unico modello perseguibile: quello del profitto imposto dalle multinazionali e dalla globalizzazione.
Per riprendere le parole di Giannozzo Pucci “il contadino fa parte di una comunità e produce per una comunità che conosce, la vera agricoltura paesana non inquina e chi produce trova i mezzi che gli servono attraverso la comunità. La transizione ecologica, sia materiale che culturale, comincia anche con l’aumento dei contadini ecologici. Questa espressione comprende tutte le forme di coltivazione che non dipendono dall’industria e non usano mezzi inquinanti ma operano bonificando la terra: la permacoltura, l’agricoltura biodinamica, biologica, naturale, sinergica e sintropica”. Negli anni invece i contadini delle piccole realtà e dei metodi agro-ecologici si sono visti esclusi, marginalizzati e indebitati. Più lavori con rispetto e meno sei sostenuto e sussidiato dall’Unione europea.
Difficile non pensare che dietro alla protesta dei trattori di questi giorni non ci sia anche la regia delle multinazionali della chimica e dell’Oil and gas. Le stesse multinazionali controllate dai grandi fondi che oggi investono nella sanità, nell’intelligenza artificiale, nella robotica e in altri settori strategici. Qual è dunque il futuro dell’alimentazione umana e dell’agricoltura? Quello di colture diserbate con pesticidi, degli Ogm, degli allevamenti intensivi, delle farine di insetti e della carne sintetica? Per parafrasare un passo della canzone Up patriots to arms di Franco Battiato “le barricate in piazza le fai per conto delle multinazionali che creano falsi miti di progresso“.
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