Stiamo assistendo a una vera e propria gara a chi è più bravo a ‘salvare il pianeta’ piantando alberi. Ma siamo sicuri che sia il modo giusto?
di Dario Boldrini
L’oggetto quotidiano di discussioni, scioperi, investimenti è oramai diventato l’ambiente, soprattutto in merito al tracollo della qualità dell’acqua, dell’aria, della terra e degli habitat in cui viviamo. Ognuno di noi può osservare con i propri occhi e percepire i cambiamenti sia in ambito climatico che atmosferico. L’appello per tutti, per “salvare il pianeta”, è diventato lo stesso: piantare alberi.
L’obiettivo di tanti enti pubblici e privati è improvvisamente diventato quello di piantare centinaia, migliaia, milioni di piante nei prossimi decenni.
Sappiamo tutti che l’azione di “riforestare” il nostro pianeta è forse la più efficace e virtuosa ai fini di ridurre la CO2 accumulata in atmosfera, limitare l’innalzamento delle temperature e rigenerare il suolo e i suoi ecosistemi vegetali e animali. Ma quanti sanno che possiamo ridurre di poco più di un grado centigrado il riscaldamento globale entro il 2050 se piantiamo un miliardo di ettari in più di foreste nel mondo? Insomma, oltre a non risolvere il problema, la fretta con cui tutti si adoperano a piantare alberi appare ancor più distante dalla costante lentezza con cui invece la natura si rigenera.
E allora come possiamo fare a facilitare un processo che già di per se avviene in natura, come quello della moltiplicazione degli alberi e delle foreste?
Mossi dall’amore reciproco e universale per Madre Terra, io e Marta abbiamo proposto di imitare la natura e prenderci tutti un impegno: faremo foresta. Possiamo affiancare le nuove politiche governative che agiscono severamente sui nostri stili di vita, ancora così rovinosi per l’ambiente e i suoi fragili equilibri, e proporre azioni sociali e culturali di riforestazione popolare, pubblica, ecologica, economica.
Sì, perché stiamo assistendo a una vera e propria gara a chi è più bravo a “salvare il mondo” piantando un numero più alto di alberi, ma la storia dovrebbe insegnarci che non è importante soltanto il numero, piuttosto il metodo e la qualità.
Lo sapeva bene ad esempio Tonino Guerra quando nel 1990 fece realizzare l’”orto dei frutti dimenticati” a Pennabilli, in cui ha piantato alberi da frutto appartenenti alla flora spontanea delle campagne appenniniche, presenti nei vecchi orti delle case contadine ma che oggi, non essendo più coltivati, vanno scomparendo: svariate specie di mele, pere selvatiche, bacche e frutti di bosco che la moderna agricoltura ha allontanato quasi anche dalla memoria. Piccolo esempio di azione mirata non solo a migliorare la qualità dell’ambiente con la presenza degli alberi, ma anche a diffondere le specie botaniche oramai scomparse, unire la cura e la bellezza delle piante con contenuti culturali dell’identità del territorio e dei suoi abitanti, prendersi cura e nutrire gli alberi nel tempo.
Un altro esempio di rigenerazione vegetale che va oltre il numero degli alberi è la Picasso Food Forest di Parma o la Terza Piazza di Firenze, dove un gruppo sempre più ampio di cittadini coltivano e piantano alberi e piante in ambito urbano, su suolo pubblico, cooperando nella gestione, la manutenzione, la salvaguardia nel tempo.
Piccole e concrete azioni che portano la cittadinanza attiva a essere protagonista di un cambiamento disegnato sulle diversità e sulle potenzialità dei luoghi in ogni città. Molto spesso sono azioni volontarie, dal basso, in cui la sinergia fra le persone porta a creare spazi verdi che contribuiscono a “salvare il pianeta” in modo capillare, resiliente, profondo.
Non basta una campagna di milioni di alberi da divulgare sui media o una nuova app per donare un albero e monitorarlo mentre cresce perché certe imponenti azioni di massa non solo allontanano sempre di più l’uomo dai tempi e dal contatto con le piante e l’ambiente, ma mistificano la realtà proponendo una “pennellata di verde” su ettari di superficie, con alberi tutti uguali come in un grande vivaio. E invece l’amministrazione di Firenze chiede 150 euro per piantare un albero per te, chi ti propone sconti e qualche albero piantato se vai a fare la spesa a quel marchio, chi ti inserisce anche dediche sull’albero attraverso QRcode o microchip a cui delegare l’osservazione e il monitoraggio dello stato di salute della pianta.
Siamo davvero sicuri che questa corsa a piantare sempre e comunque, affidandosi anche alla tecnologia, possa contribuire a “salvare il pianeta”? Nessuno vuole un pianeta dove uomini e donne prima rispettano alberi e foreste esistenti, raccolgono i semi di quelli più vergini e selvatici, e magari riforestano il pianeta secondo natura? Come possiamo “fare foresta” in terra se non sappiamo “fare foresta” fra noi? Creiamo reti di comunità solidali, educhiamo al valore dei semi e delle foreste vergini, al rispetto degli alberi e alla loro cura e protezione, cooperiamo gli uni con gli altri come fanno le piante, fino a che non sapremo se quel grande giardino planetario che verrà sarà frutto dell’essere vivente umano o vegetale o di entrambi, ma in stretto contatto. Faremo foresta, tutti insieme.
Dario Boldrini è nato e vive a Montespertoli (Fi). Dopo 12 anni di lavoro in uno studio di Architettura del Paesaggio di Firenze (ha progettato alcuni dei primi orti urbani) ha scelto di vivere nel podere di famiglia San Ripoli dove ha fondato l’associazione Seminaria. Un progetto che spazia dalla creazione di orti e giardini ai laboratori di orticoltura per bambini e adulti, dalle spirali di erbe aromatiche ai seminari di orti creativi.
Appassionato divulgatore, ha realizzato centinaia di servizi per il programma GEO di RAI 3 in giro per l’Italia. Il suo progetto della Terza Piazza a Firenze (Coop di piazza Leopodo) è diventato un modello di aggregazione sociale.
“Giardiniere planetario” è una qualifica ereditata da Gilles Clèment, agronomo e paesaggista francese.
www.darioboldrini.net
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