L’allerta rossa dovrebbe far riflettere sulla necessità di attuare una serie di interventi di tutela del territorio sempre più urgenti e necessari.
di Marcello Bartoli
14 marzo 2025
Ci risiamo, in queste ore la Toscana è nel pieno dell’emergenza a causa delle piogge in eccesso con gravi conseguenze su interi territori soggetti a esondazioni di fiumi e corsi d’acqua. Molto probabilmente, passato il clamore mediatico, i problemi idrogeologici del territorio toscano rimarranno tali, prevalentemente riconducibili al consumo di suolo, alle migliaia di ettari di aree ricoperte da cemento, strade, capannoni che espongono la popolazione al rischio alluvioni.
“Una vera riduzione del rischio idrogeologico – ha più volte spiegato Fausto Ferruzza, presidente di Legambiente Toscana – si può ottenere solo restituendo spazio ai fiumi agendo su delocalizzazioni, de-sigillatura di suoli impermeabilizzati, rinaturalizzazione delle aree alluvionali, azzerando il consumo di suolo e non concedendo nuove edificazioni nelle aree prossime ai corsi d’acqua“. In seconda battuta è necessario intervenire “con opere di difesa passiva e di sfogo controllato, come aree o vasche di laminazione, da realizzare laddove strettamente necessario e inserendole sempre in un quadro di pianificazione e programmazione chiaro e trasparente”.
Per molti anni i fiumi sono stati trattati come cavalli selvaggi da imbrigliare: li abbiamo costretti in arginature di cemento, ne abbiamo modificato il corso, siamo arrivati persino a cancellarli dalle carte geografiche infilandoli sottoterra. La nostra fame di territorio non ha conosciuto limiti e oggi sempre più spesso, con gli eventi estremi diventati più frequenti e intensi negli ultimi vent’anni, i fiumi ci presentano il conto. “E’ importante investire in opere che restituiscano la naturalità ai corsi d’acqua dove possibile attraverso opere di ingegneria naturalistica: ad esempio rimuovendo i tombamenti dei corsi d’acqua per restituirgli il carattere originario” dichiarava un anno fa Vieri Gonnelli, consigliere dell’Ordine degli ingegneri di Firenze.
Lo scorso settembre Alessandro Trivisonno, presidente Federazione degli Ordini dei Dottori Agronomi e Forestali della Toscana, richiamava alla necessità di “soluzioni alternative alla gestione del territorio aperto, dall’adozione di pratiche agricole e forestali che favoriscono l’assorbimento dell’acqua alla riconversione degli insediamenti in ‘città spugna’, riducendo così la vulnerabilità dei territori alle inondazioni”. Nell’ultima edizione del suo libro Mescolate contadini, mescolate, il ricercatore Salvatore Ceccarelli spiega come anche le pratiche agricole intensive degradino e impoveriscano il suolo, aumentando così la suscettibilità alle inondazioni.
Il Wwf Toscana ha messo più volte l’accento sull’ossessione per il taglio a raso della vegetazione lungo le rive dei fiumi: “Non ha alcuna giustificazione scientifica ma è gravemente dannosa per l’erosione delle sponde e il dissesto idrogeologico, compromettendo allo stesso tempo la funzionalità ecologica dei corsi d’acqua, in modo spesso irreversibile”. Secondo gli approcci di gestione più avanzati servirebbe invece assecondare la naturalità dei corsi d’acqua: “La vegetazione smorza la velocità dell’acqua rendendo meno distruttive e pericolose le piene e impedisce l’erosione del suolo e delle sponde”.
Quali sono le soluzioni praticabili? Su queste pagine Silvia Ciucchi ha ricordato l’esempio virtuoso di Calenzano dove le casse di espansione consentono di gestire un volume d’acqua che di norma è tenuto libero così da ridurre la portata delle piene. Il volume invasato viene restituito quando le condizioni idrometriche del corso d’acqua non sono più pericolose. La capacità di trattenere volumi d’acqua anche modesti consente inoltre di creare un ambiente umido utilizzabile dall’avifauna. È possibile anche lo sviluppo di vegetazione e di determinati tipi di colture.
“Fino a una decina d’anni fa la pratica di intubare corsi d’acqua che passavano vicino o dentro i paesi era una prassi assolutamente normale, anche in Toscana – ha argomentato il consulente ambientale Sandro Angiolini -. Veniva ritenuta tecnicamente corretta, serviva a dare lavoro alle ditte di costruzione e assicurava apparentemente risultati rapidi e definitivi. Assieme allo studio di una realistica messa in sicurezza occorrerebbe prendere in seria considerazione anche un’altra opzione: demolire le strutture costruite nei pressi dell’alveo di questi corsi d’acqua per ricostruirle altrove. Altrimenti il rischio è che, tra 10 o 20 anni, un evento meteorologico di dimensioni ancora maggiori faccia saltare l’avvenuta “messa in sicurezza”; alla fine, secondo una corretta analisi costi/benefici, ci potrebbe costare di meno”.
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