Forse per rendere Mondeggi un vero bene comune è necessario difenderlo strenuamente dai tentativi di vendita per mantenerlo pubblico, custodirlo e sottrarlo all’abbandono.
Comitato di Mondeggi Bene Comune – Fattoria senza padroni
Il giorno dopo la sentenza di primo grado che ha assolto dalle accuse i 17 a processo della Comunità di Mondeggi, la Città Metropolitana ha rilasciato il seguente – laconico – comunicato.
“Dopo la sentenza sulla vicenda Mondeggi sono apparsi sulla stampa commenti che la strumentalizzano rendendo un’interpretazione piuttosto distorta di concetti basilari quali “bene comune” e suo legittimo utilizzo. La Città Metropolitana di Firenze attende il deposito della sentenza per leggerne le motivazioni”.
Dalla lettura di queste poche righe viene spontaneo chiedersi: ma qual è l’interpretazione che la Metrocittà dà al concetto di bene comune, e quali sono state le azioni intraprese per dimostrare la correttezza di tale interpretazione?
Forse per dimostrare che un bene è “comune” lo si deve mettere ripetutamente in vendita per renderlo non comune ma di un solo proprietario?
Forse un bene diviene “comune” solo in seconda battuta, dopo aver registrato il conclamato fallimento dei suddetti tentativi di vendita?
Forse, per dimostrare l’attenzione al “concetto basilare” di bene comune, è necessario redigere un regolamento apposito – senza nessun contraddittorio con la cittadinanza attiva – per poterlo assegnare a una qualsiasi associazione che presumibilmente lo utilizzerà per i propri interessi dopo la presentazione di un progetto economicamente sostenibile per ambedue le parti in gioco?
Ancora, forse si è così sicuri di sapere esattamente cos’è un bene comune da non prendere nemmeno in considerazione l’idea di confrontarsi con chi – talvolta scommettendo la propria vita – sta custodendo quel bene perseguendo un’utopia fondata su idee diverse?
O forse per rendere Mondeggi un vero bene comune è necessario difenderlo strenuamente dai tentativi di vendita per mantenerlo pubblico, custodirlo e sottrarlo all’abbandono in cui – ormai – versava, renderlo aperto e attraversabile da chiunque ne voglia godere?
Forse un bene emerge come “comune” se una comunità di persone lo percepisce come tale – non se un ente lo etichetta “comune” – e se questa comunità si adopera per gestirlo in modo orizzontale e partecipativo tramite un’assemblea plenaria a cui anche l’ente gestore dovrebbe partecipare?
Forse, un bene viene percepito come “comune” dalle persone se svolge un importante ruolo di utilità sociale per la comunità che lo gestisce e il territorio di riferimento?
Infine, forse un bene è “comune” se dà la possibilità di lavoro a chiunque voglia confrontarsi con progetti di agroecologia incentrati sul mantenimento del buon equilibrio tra uomo e natura, fuori da logiche di sfruttamento del lavoro e di mero profitto?
Ai lettori l’ardua sentenza
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