I distretti bio potrebbero avere un ruolo di primo piano nel mettere un argine alla globalizzazione economica.
di Rosario Floriddia
Da un’attenta lettura di un libro di Roberto Bosio, economista, dal titolo Una pietra al collo, sottotitolo Lo scandalo dell’indebitamento dei Paesi poveri, ho ben capito che tutti i Paesi in Via di Sviluppo (PVS) che hanno ricevuto prestiti per diventare Paesi Sviluppati (PS) sono diventati Paesi Sotto Sviluppati (PSS). La domanda viene spontanea: cosa sono diventati i PSS che nei decenni hanno avuto anche loro enormi prestiti? Purtroppo i milioni di bambini, e adulti, che ogni anno muoiono di fame e di malattie – da noi curabili – in maggioranza appartengono a quei Paesi.
Perché questo disumano disastro? Perché i prestiti ai PSS e ai PVS è come se avessero avuto, e hanno, il compito di sostituire il vecchio “patto coloniale” che teneva schiavo il Paese povero a quello ricco. In pratica, sostiene Bosio, “Nelle colonie venivano coltivati solo pochi prodotti: le materie prime necessarie all’industria della madrepatria (come il cotone, l’hevea o il rame) o quelle facilmente commerciabili (te, caffè, cacao, banane); ogni Paese veniva destinato alla produzione di uno o due beni. L’indipendenza non ha cambiato questo perverso sistema: i Paesi in via di sviluppo continuarono a produrre soltanto una o due materie prime, agricole o minerarie. Ancora oggi in America Latina rappresentano i due terzi dell’esportazione, e in oltre metà dei Paesi africani addirittura i nove decimi (…). Dato che la maggior parte dei Paesi poveri fonda la sua economia sulla produzione e l’esportazione di una sola materia prima, la capacità di rimborsare i prestiti contratti in altre valute (dollari ed euro, soprattutto) dipende dal prezzo di quel prodotto sui mercati internazionali. Ma i prezzi delle materie prime vengono fissati nelle grandi borse…”.
E qui intervengono a dare una mano ‘quelli del solipsismo’ che troviamo anche, pur se ben nascosti, all’interno delle innumerevoli organizzazioni mondiali che gestiscono i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi poveri, come Banca Mondiale e Fondo Monetario internazionale.
La prima finanzia a condizione che i progetti dimostrino un aumento, giustamente, dell’economia del Paese. L’aumento di produttività, di solito, viene tradotto in grandi opere ad alta tecnologia bisognosa di manodopera specializzata, il che vuol dire lavoro e soldi per ditte dei Paesi sviluppati che usano loro materiali e tecnici. Il secondo ha come compito principale quello di scongiurare le insolvenze dei PSS e PVS e quindi richiede maggior produzione di materie prime destinate all’esportazione, praticamente sollecita in quei Paesi la riduzione del deficit: riduzione di spese sanitarie, di spese per l’istruzione, dare in gestione le opere pubbliche (redditizie) ai privati (spesso stranieri), privatizzare i beni pubblici mobili e immobili.
Dimenticavo di dire che Una pietra al collo (poche decine di pagine, di cui tre di bibliografia) è stato pubblicato nel 1998 e ovviamente quello appena descritto era diretto solo ai Paesi poveri; della Grecia, Spagna, Italia e altre ‘superpotenze’ all’epoca si pensava che fossero immuni da qualsiasi crisi, povertà, enorme indebitamento pubblico e percentuale di disoccupazione a due cifre.
Viene da pensare che il “patto coloniale” non lo gestiscono più i Paesi ricchi, oramai quasi tutti indebitati, ma gli insaziabili dell’alta finanza e i padroni delle gigantesche multinazionali della produzione e del commercio.
Un mio vicino, agricoltore a tempo pieno già all’età di quindici anni perché non sopportava la scuola, era con me a un convegno di quelli dove si parla di cose serie per cercare di ‘cambiare il mondo’. Quasi alla fine dei lavori si alzò e disse: “Finché si compra le scatolette per i gatti e il grano avvelenato per i topi, ‘un cambierà mai nulla”; pensai che la logica e la semplicità sono cose veramente fantastiche: con una frase è come se mi avesse fatto vedere un’immensa fotografia di come quasi tutto va al contrario; anche i gatti hanno dimenticato il loro naturale compito di prendere i topi e a qualcuno fa piacere perché grazie alle nuove abitudini si arricchisce.
È uno scempio? No, risponde l’economista di turno, perché crescono produzione e consumi, cresce il PIL.
Direi che cresce la super ricchezza di pochi e aumenta la povertà di molti. Magari il ritrovare la sana economia di comunità, dove il distretto bio potrebbe avere un ruolo di primo piano, può darci coraggio e mezzi per ignorare la globalizzazione economica. La globalizzazione che è foriera di esagerato accumulo di denari e capitali in mano a pochi. L’economia di comunità, di territorio, è anche invito a comprare molte meno scatolette per gatti e niente grano avvelenato per topi.
Rosario Floriddia conduce insieme al fratello Giovanni l’azienda agricola Floriddia, convertita al biologico nel 1987. Rosario fa parte attiva della Rete Semi Rurali e del Coordinamento toscano produttori biologici. Si occupa della selezione dei cereali di vecchie varietà e della loro coltivazione in campo collaborando strettamente con Stefano Benedettelli, genetista dell’Università di Firenze, e Giovanni Cerretelli, agronomo e storico propugnatore del metodo della coltivazione biologica in Toscana. L’azienda sorge sulle colline pisane della Valdera, tra Peccioli e Villamagna di Volterra, su 300 ettari di terreno. Informazioni: ilmulinoapietra.com
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