Ecosistema

Bio ma non troppo, gli ecoshopper rimangono in mare per mesi

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Lo rivela lo studio di un team di biologi dell’Ateneo pisano sull’impatto delle cosiddette buste ecologiche di nuova generazione nell’ambiente marino. 

Più di sei mesi. È questo il tempo che serve al mare per “smaltire” le cosiddette buste ecologiche di nuova generazione. Senza dimenticare poi che la plastica biodegradabile di cui sono fatte può comunque alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino come ossigeno, temperatura e pH.

Sono queste alcune delle conclusioni di uno studio condotto da un team di biologi dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica Science of the Total Environment”. Il gruppo composto da Elena Balestri, Virginia Menicagli, Flavia Vallerini, Claudio Lardicci ha ricreato un ecosistema in miniatura per analizzare i potenziali effetti diretti o indiretti dell’immissione nell’ambiente marino delle nuove buste in bioplastica, la cui diffusione si prevede possa aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere livelli simili a quelli delle buste tradizionali.

“La nostra ricerca si inserisce nel dibattito sul “marine plastic debris”, cioè sui detriti di plastica in mare, un tema globale purtroppo molto attuale – spiega il professor Claudio Lardicci dell’Ateneo pisano – quello che abbiamo potuto verificare è che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi, superiori ai sei mesi”.

Come specie modello i ricercatori hanno selezionato due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei, valutando quindi la loro risposta a livello di singola specie e di comunità rispetto alla presenza nel sedimento della bioplastica compostabile. Lo studio ha quindi esaminato il tasso di degradazione delle buste e alcune variabili chimico/fisiche del sedimento che influenzano lo sviluppo delle piante.

“A oggi la nostra ricerca è l’unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori – conclude Lardicci – i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette “biodegradabili” nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull’intero habitat sono aspetti in gran parte ignorati dall’opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica”.

Fonte: Università di Pisa

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