Lavorano nella tenuta di proprietà della Regione Toscana. Il loro è un mestiere impegnativo e faticoso che è soprattutto una scelta di vita, ma oggi rischia l’estinzione.
di Gabriella Congedo
ALBERESE (Gr) – Nel Sudamerica ci sono i Gauchos. In Francia ci sono i Gardians. In Ungheria gli Csikòs. Negli Stati Uniti naturalmente ci sono i Cowboy. E via continuando. La figura del mandriano, questo cavaliere dall’alone leggendario, è diffusa in tutti i continenti, ovunque ci siano grandi spazi e branchi di bestiame allo stato brado. In Maremma, e solo qui, ci sono i Butteri. Forse sarebbe più esatto dire c’erano, perché sono quasi scomparsi. Gli ultimi, veri butteri a cavallo rimangono quelli che lavorano ad Alberese, nella grande tenuta della Regione Toscana a sud di Grosseto: un gioiello di 4.200 ettari tra boschi, terreni coltivati, pascoli e oliveti.
In questa terra un tempo paludosa e selvaggia, bonificata in epoca fascista, oggi viene praticata l’agricoltura biologica – la tenuta di Alberese è una delle più grandi aziende bio d’Europa – e si allevano allo stato brado vacche e cavalli di pura razza maremmana.
La vita del buttero è percepita come avventurosa e romantica, e lo è, ma è soprattutto una vita molto dura. Bisogna controllare le mandrie, trasferirle da una zona all’altra, controllare i pascoli, le recinzioni, i punti di abbeveraggio. E poi ci sono i cavalli, i robusti cavalli maremmani che qui sono una cinquantina: bisogna addestrarli, averne cura, occuparsi delle stalle e degli strumenti di lavoro. E tutto questo ogni giorno, con qualunque tempo, tutti i giorni dell’anno. Non un lavoro come un altro ma una scelta di vita.
“È un mestiere che ti mette sempre alla prova – racconta Alessandro Zampieri, il veterano dei butteri dell’azienda con quarant’anni di servizio alle spalle – non ti puoi permettere leggerezze, se sbagli paghi”.
Lui nella tenuta di Alberese ci è cresciuto, il padre era magazziniere. “La selleria aziendale era di fronte al granaio dove lavorava mio padre, quando lo andavo a trovare e vedevo i cavalli sentivo già che era quella la vita che volevo, lavorare con gli animali”. La madre però non accetta che lui faccia il buttero – in quegli anni di fuga dalle campagne sembra una strada senza futuro – e lo spinge a iscriversi all’Istituto Alberghiero.
Dopo il diploma Alessandro lavora per qualche anno negli alberghi ma non regge a lungo. Alla prima occasione, quando in azienda cercano qualcuno che oltre a badare agli animali sappia parlare le lingue, si presenta e viene assunto. È il 1978 e da allora ha sempre fatto il buttero, senza rimpianti. Adesso è capo buttero e coordina il lavoro degli altri quattro, ma segue anche l’agriturismo della tenuta e l’organizzazione di convegni. “È un mestiere che ti si radica dentro come una malattia. Il rapporto con l’animale non è come il rapporto con una macchina. Il cavallo è come una persona, se si fida di te ti dà tutto. È la poesia di questo lavoro, ma è una poesia che bisogna sentire sempre, 365 giorni all’anno”.
Nella pianura di Alberese pascolano allo stato brado circa 450 vacche maremmane dalle grandi corna a lira, allevate in maniera del tutto naturale. Per i butteri il periodo tra gennaio e aprile, quando cominciano a nascere puledri e vitelli e iniziano le monte di tori e stalloni, è quello di maggior lavoro.
Dedicato a questo mestiere nobile e antico è uscito due anni fa il bel film – documentario Gli ultimi butteri di Walter Bencini, distribuito dall’Istituto Luce. Girato qui ad Alberese, racconta il quotidiano straordinario di questi uomini, tra paesaggi magnifici e il lento scorrere delle stagioni. Due giovani entrano nel gruppo per imparare il mestiere, ma uno solo ce la farà.
E infatti il ricambio generazionale, conferma Alessando Zampieri, non è semplice: “Può sembrare un lavoro appetibile e bellissimo ma è anche duro e molto selettivo. All’ultimo bando che abbiamo fatto di giovani se ne sono presentati pochi. Un ragazzo che avevamo scelto ha resistito 20 giorni. Come tutti i mestieri basati sulla trasmissione ad altri delle conoscenze, se c’è una continuità ben venga, altrimenti sono dolori”.
(Prima pubblicazione dell’articolo: 19 settembre 2018)
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