Una lettrice da Greve in Chianti: “Dopo oltre un mese non possiamo ancora consumare i nostri ortaggi. E ogni estate subiamo la stessa situazione”.
Gentile Redazione,
vi scrivo perché indignata di una situazione, condivisa da molti, che ritengo inaccettabile in un territorio di pregio che vanta un bio-distretto e in cui molte persone si impegnano ammirevolmente e con notevoli sforzi per una reale valorizzazione del Chianti.
La mia è una segnalazione, ma vuol essere soprattutto un’occasione per avviare uno spazio di discussione e di dibattito tra i cittadini, magari proprio tramite Toscana Chianti Ambiente.
La questione riguarda un trattamento nel vigneto che circonda la nostra abitazione, una piccolissima proprietà nel comune di Greve in Chianti. I vigneti dell’azienda agricola sono stati impiantati lungo il confine a qualche metro dalla nostra abitazione (e non dalla loro): il primo filare si trova infatti a 4 metri dal giardino e a meno di 10 metri dalla casa. Da anni i trattamenti si svolgono senza alcun preavviso da parte del proprietario. Alle nostre richieste abbiamo ricevuto sempre la medesima risposta vaga: minimizzando da un lato il tipo di trattamento (con un generico “ramato”) e dall’altro promettendo un’informazione, mai avvenuta nei fatti, con un’attitudine deresponsabilizzante tra proprietario e contoterzista.
A metà luglio, al momento dell’arrivo del trattore per l’ennesimo trattamento, ci siamo precipitati fuori e abbiamo appreso dall’operatore trattarsi di prodotti fitosanitari antiperonosporici. Nonostante la nostra richiesta di prestare particolare attenzione in prossimità dell’orto e di direzionare il getto verso l’interno del vigneto, il trattamento è stato erogato dai “cannoni” più alti del trattore (senza alcun coadiuvante per ridurre la deriva) e direzionato completamente verso il nostro giardino e l’orto. Quasi senza volerlo, perché convinti di essere stati compresi, abbiamo filmato l’accaduto che mostra palesemente il prodotto oltrepassare il vigneto e disperdersi ampiamente sulle nostre verdure.
Da allora proviamo un grande sentimento di rabbia, stanchi di subire ogni estate la stessa situazione. Attenti a un’alimentazione biologica da anni (il mio compagno ha gestito uno dei primi ristoranti biologici nel nord Europa nel lontano 1996), troviamo intollerabile che oggi si possano avere dei comportamenti talmente poco rispettosi da aziende agricole che si vantano di essere l’orgoglio del nostro territorio ma che veicolano purtroppo, e troppo spesso, un’immagine falsata del “made in Chianti” di qualità. Chiaramente non mi riferisco a chi questo lavoro lo fa in modo serio e tra l’altro paga le conseguenze di chi invece non lo fa.
Sconcertati e sconvolti dall’accaduto abbiamo cercato di diffondere la notizia tra amici (tra cui molti produttori biologici) e conoscenti e di contattare autorità e associazioni presenti sul territorio.
Il primo consiglio, essenziale, è stato di non consumare i nostri ortaggi e di restare il più possibile in casa dato che il tempo di rientro per tali prodotti è di 48 ore. Certo non viviamo nel campo, ma la prossimità è tale che è un po’ come trovarsi, senza volerlo nè averlo scelto, nel bel mezzo di un vigneto.
Dover abbandonare il nostro orto ci ha profondamente rattristati al punto che per alcuni di noi è ancora oggi impossibile, a un mese di distanza, metterci piede.
Il nostro era un orto d’estate e d’inverno, seminato con semi biologici e anche biodinamici, oramai per lo più recuperati dai nostri stessi ortaggi o da piantine rigorosamente biologiche, attuando la rotazione e la consociazione delle colture, piantando fiori ed erbe aromatiche (che poi essiccavamo), trascorrendo la primavera a far crescere in casa tante piantine, spostandole tutto il giorno per offrire la giusta quantità di luce e calore e ancora acquistando in Francia la “grelinette”, attrezzo magnifico per un orto familiare, dispensatore di biodiversità e protettore degli ecosistemi del suolo: un piccolo elenco di gesti che parlano di amore e cura per la terra. E tutto questo in un orto piccolissimo, ma che ha prodotto cibo e gioia per gli abitanti e i tanti frequentatori della casa, con cui spesso ci siamo scambiati piante e piccole produzioni, come lo sciroppo di piantaggine o l’oleolito di Bellis Perennis.
Artisti di professione, lo scorso anno abbiamo mostrato il nostro attaccamento ai prodotti della terra esponendo, per un premio in cui eravamo finalisti, le nostre salse di pomodoro! Per noi è stato un modo, nell’anno della pandemia, di interrogarci sul ruolo dell’artista in questa società, ma anche su quale interazione avere con il mondo vivente, soprattutto per quello che concerne la trasformazione positiva della materia organica. Abbiamo scelto un prodotto comune come la salsa di pomodoro proprio per il senso che questo ortaggio ha nella nostra società. Il pomodoro e tutti i suoi derivati si enumerano infatti tra i prodotti ortofrutticoli più globalizzati e la cui produzione industriale su larga scala genera sfruttamento e ingiustizia sociale. Agiamo così per provare a capire il pianeta e imparare ogni giorno a rispettarlo. Ma non per tutti è così.
Terribilmente avviliti da questa storia abbiamo cercato di tirarci su e considerarci persino “fortunati” di essere stati presenti e aver visto, altrimenti avremmo mangiato le nostre verdure ignari della contaminazione avvenuta. Da ricerche e confronti è emerso anche che il tempo di carenza del prodotto, almeno per la vite, è di 28 giorni (in agricoltura convenzionale). Questa cosa ci ha profondamente irritati. Come è possibile che, conoscendo questi dati e sapendo di aver impiantato dei vigneti senza una minima fascia di rispetto, si facciano nebulizzare dei prodotti tossici senza darne comunicazione alle persone? Sapendo in più che una buona percentuale della popolazione locale è vulnerabile e a rischio e che le verdure trattate in questo modo non sono idonee a un consumo immediato per via dell’intervallo di sicurezza.
Perché ignorare la presenza delle persone e ledere il loro diritto alla salute? Perché dover impedire ai bambini di giocare in giardino o di cogliere le fragole che hanno visto crescere quando arriva un trattamento non annunciato? Perché doversi rinchiudere in casa in estate per non incorrere in rischi per la salute? Nel pregiato territorio del Chianti? Bisogna farci sentire.
La questione è dibattuta in tutta Europa. In Francia il Consiglio di Stato comincia a sanzionare il Governo per la leggerezza con cui si autorizzano tali trattamenti e, come dichiarato dall’Agence nationale de sécurité sanitaire, anche nel caso in cui gli effetti tossici, cancerogeni o mutageni siano solo sospetti.
Il declino della biodiversità è una realtà allarmante. Continuare con queste pratiche aggrava, anno dopo anno, la situazione ambientale. Non si può più perseverare con comportamenti così poco lungimiranti che deteriorano la qualità della vita e dell’ambiente. E se proprio si vuole ignorare di nuocere al vicino, cosa molto brutta, bisognerebbe capire che in realtà si fa male a tutti, pure a sé stessi.
Allora si parla di costi e di posti di lavoro quando in realtà, almeno per i grandi imprenditori presenti sul territorio, si tratta, ma non si dice, principalmente di profitto. Perché oggi avvelenare le persone e l’ambiente con dei prodotti fitosanitari e giustificarlo con l’imperativo del lavoro è un’incongruenza, un’anomalia di un sistema che non funziona più. Tra l’altro gli operatori agricoli sono i primi a subirne le conseguenze per la loro salute.
Chi può dire oggi che biologico, rispetto della natura e della salute siano incompatibili con il lavoro? Esistono prove tangibili del contrario, e ancor più in un territorio come il Chianti, con un bio-distretto già attivo e centri di eccellenza per la ricerca nella viticoltura naturale. Non si può più dire che non vi siano alternative. L’agricoltura biologica fa enormi progressi, addirittura riducendo o abbandonando i trattamenti (accettati nel biologico) a base di rame e zolfo perché spesso erogati in eccesso senza che vi sia una reale necessità.
La monocoltura di vigneti sta impoverendo drasticamente il nostro territorio. Si deve cominciare a lavorare insieme per realizzare un luogo ricco di biodiversità, ameno e votato alla sovranità alimentare.
Siamo consapevoli che la nostra vicenda è una delle tante in cui, anche a fronte delle evidenti conseguenze ambientali, si continua ad agire senza rispetto per gli esseri viventi e per la terra.
Oggi abbiamo ricevuto il risultato della seconda analisi sui nostri ortaggi, a più di un mese dal trattamento in questione e, senza averne visti erogare altri, il dato è superiore, persino doppio rispetto a quello effettuato a dieci giorni di distanza. Difficile a dirsi, ma sta di fatto che il famoso tempo di carenza di quattro settimane appare ridicolo e assolutamente irrisorio a fronte di questo risultato. Vuol dire che le tracce restano e a lungo, ben oltre la data indicata. Che si tratti di vino o verdure, perché? Tante domande nascono spontanee relativamente ai controlli e alla sicurezza di questi prodotti. E si vuole continuare in questa direzione?
Leonora Bisagno
Per legge l’industria a cielo aperto che si ostinano a chiamare “viticoltura convenzionale” deve comunicare con cartelli ben visibili il tipo di trattamento effettuato (assolutamente in assenza di vento), il prodotto utilizzato ed i giorni prima dei quali è vietato entrare nell’area avvelenata. Secondo la misura A.5.6 del vergognoso PAN in vigore ” E’ fatto obbligo di avvisare la popolazione attraverso l’apposizione di cartelli che indicano, tra l’altro, la sostanza attiva utilizzata, la data del trattamento e la durata del divieto di accesso all’area tratta”
Se non si denunciano alla magistratura i fuorilegge, non potremo sperare di venirne fuori neanche inasprendo le pene (l’ attuale comma 10 dell’articolo 24 del d.lgs 150 /2012 prevede sanzioni pecuniarie dai 5.000 ai 20.000 euro oltre al ritiro del certificato di abilitazione all’acquisto ed all’utilizzo di pesticidi)