Il virus ha trovato terreno fertile per proliferare. Ora dipende dalle nostre scelte ripartire con il piede giusto dimostrando di aver capito la lezione.
di Laura Lop
Il talento dell’uomo moderno in molti casi sembra essere diventato quello di creare le condizioni per la nascita di un problema, metterci una toppa preferibilmente monouso e, dopo l’utilizzo, buttarla per terra.
È quello che stiamo sperimentando durante la nostra convivenza con un virus a raggio d’azione planetario, un virus che non è frutto di astratte punizioni divine ma che ha trovato terreno fertile – in questo caso è più calzante definirlo “terreno estremamente inquinato” – per proliferare e conquistare ogni continente.
Un virus che ci ha messi seduti, dandoci un insolito tempo per protestare, scalpitare, lamentarci e saltuariamente riflettere, immersi in una crisi divoratrice di certezze.
Abbiamo imparato a conoscere un nuovo inglesismo, il lockdown, traducibile nella nostra lingua con la parola confinamento.
“Girando sempre su se stessi, si perde la possibilità di esercitare la propria intelligenza, che si atrofizza” scriveva Camus, quella intelligenza che appartiene ad ogni essere vivente, compresi i batteri che sono minime sequenze di Dna. Ma noi umani, siamo sicuri di saperla usare?
Anche se forzatamente, abbiamo iniziato a rallentare il giro, a scremare il superfluo, a rinunciare, a fermarci e nel mentre il Pianeta guariva. E fiorivano gli arcobaleni con tratti di pennarello affissi alle finestre, dentro e fuori le nostre mura, a incorniciare una consolazione nata e adeguata solo se rivolta ai bambini: andrà tutto bene. La stessa frase sulla bocca degli adulti acquista tratti di pericolosa de-responsabilizzazione, una pecca in cui siamo imbevuti fin dalla nascita e che condiziona tutta la nostra esistenza.
Andrà tutto bene presuppone l’analisi lucida dei motivi del problema, il tamponamento degli effetti causati e profondi cambiamenti affinché si possa ripartire sconfiggendo le cause e non solamente rimandando una crisi futura più grande. Andrà tutto bene presuppone una società di individui maturi e consapevoli del fatto che la maggior parte degli eventi che ci troviamo ad affrontare nel corso di tutta l’esistenza dipende dalle nostre intenzioni e azioni.
Mi domando se tutte quelle persone che si sono sentite prigioniere durante il confinamento perché ostaggio di abitazioni-formicai veramente non lo fossero anche prima e dopo che il virus glielo facesse notare, e se veramente non avessero altra scelta che di vivere in spazi angusti e lontani dal verde.
Scegliere è una facoltà umana che esercitiamo sulla base dei condizionamenti della società, dell’educazione familiare, dell’omologazione che ti vende la “normalità” del gregge. Ed è un attimo fare pessime scelte, contrarre mutui per tutto, sprecare soldi per trasferirsi in abitazioni asfissianti e ritrovarsi a compiangersi.
Il virus è stato portatore di sofferenza ma cerchiamo di leggere il risvolto della medaglia, il virus è anche portatore di cambiamento personale, collettivo, sociale ed economico.
Il messaggio ci lampeggia a caratteri cubitali sotto il naso: salvare il pianeta oppure arrendersi a malattie, crisi finanziarie ed eventi climatici che ci schiacceranno.
Non è semplice pensare positivo nel pieno di una campagna mediatica farcita di disinformazione, sostenuta dai pilastri della paura e finanziata da interessi di pochi. Un esempio lampante è la messa in discussione della plastic tax da rimandare, la promozione per il rilancio del monouso nonostante le linee guida che comunicano, anche se in modo distorto, il messaggio che primariamente si devono usare prodotti riutilizzabili e lavabili con la dovuta igienizzazione.
Dati scientifici affermano che è proprio sulla plastica che il virus sopravvive per ben 72 ore.
Come se non bastassero tutti i disastri ambientali causati dalla plastica fino a oggi, abbiamo messo in piedi un mercato post Covid dove la plastica spadroneggia e dato che il Covid attacca i polmoni, logicamente abbiamo spinto sul monouso, sospendendo molte raccolte differenziate e aumentando la quantità di rifiuti da bruciare negli inceneritori, che ora lacchè e ruffiani stanno di nuovo decantando.
Le polveri fanno ammalare i nostri polmoni, così come il Covid, in un circolo vizioso che mi ricorda Branduardi quando cantava alla Fiera dell’Est, dove infine doveva intervenire il Signore a rimettere ordine, come diciamo a Firenze, in quel bailamme.
Fortunatamente sappiamo che esiste una società alternativa che stenta a essere raccontata sui grandi giornali e Tv perché destabilizza il modello dominante, ma c’è ed è composta da chi si ingegna per ripartire dimostrando di aver compreso la lezione.
Nella prossima uscita vi racconterò in dettaglio un progetto quasi completato che riguarda il nuovo irrinunciabile accessorio: la mascherina, quando indossata icona della pandemia, quando buttata dimostrazione di inciviltà.
Inizialmente la gran parte delle mascherine monouso sono state realizzate con tessuti sintetici non riciclabili e imballati singolarmente in buste di plastica, ma grazie alla deroga per la mancanza di certificazione e all’avallo dell’Istituto Superiore di Sanità ora la mascherina chirurgica può essere anche autoprodotta e soprattutto lavabile. Il progetto in corso si spinge ancora più in là, prevedendo un’ulteriore ottimizzazione di risorse ambientali e zero rifiuti. Alla prossima puntata…
Laura Lo Presti vive sulle colline del Montalbano, circondata dalla Natura e dai suoi gatti. Attivista ambientale per passione, collabora con il Centro di Ricerca Rifiuti Zero di Capannori (www.rifiutizerocapannori.it) e con Ekoe società cooperativa (www.ekoe.org) per la commercializzazione di stoviglie e imballi ecologici.
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